Salario Minimo quale base di riferimento della contrattazione collettiva, ma rispettando l’art 39 della Costituzione

RISPETTO DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA PER SALARIO MINIMO, CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E RAPPRESENTANZE SUI LUOGHI DI LAVORO

Riflessione a  cura di:  Benedetto Di Iacovo, Segretario generale CONFIAL  e Maurizio  Ballistreri, Responsabile nazionale ISL – Giuslavorista

La perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni

Il dibattito economico e sociale in Italia vede al centro, tra l’altro, i fenomeni dell’ ”abbandono del lavoro”, del working poor e delle discriminazioni retributive di genere. Una delle chiavi di lettura è certamente da ricercare nella drammatica perdita del potere d’acquisto del lavoro dipendente.

Sono i dati dell’Istat che evidenziano come negli ultimi trenta anni i prezzi siano cresciuti per tre volte rispetto alle retribuzioni, anche in conseguenza della disastrosa gestione dell’introduzione dell’euro nel 2002, e di politiche contrattuali rivelatesi inadeguate, assieme alla cancellazione di strumenti di adeguamento all’andamento di prezzi e tariffe. E, oggi, con una fiammata inflazionistica dell’8% su base annua – dovuta fondamentalmente alla crescita esponenziale dei prezzi del gas e dell’elettricità, con trascinamento di tutti i prezzi dei beni di prima necessità e dei trasporti, conseguente all’invasione russa in Ucraina, è ulteriormente aumentata la caduta dei salari netti, anche in conseguenza di politiche fiscali che penalizzano il lavoro dipendente.

Un nuovo catalogo dei diritti sociali

C’è l’esigenza in Italia di ridefinire il catalogo dei diritti sociali, ampliandolo.

Ai giorni nostri il sistema dei diritti del mondo del lavoro non può non tenere conto, ad esempio, dei cambiamenti nella stessa nozione di subordinazione e delle nuove figure di lavoro autonomo meritevoli di tutele, in conseguenza dei profondi mutamenti provocati nei sistemi produttivi e nell’organizzazione sociale dalle nuove tecnologie. Si pensi ai lavori in piattaforma e si guardi a come cambierà il modo di prestare le attività lavorative a seguito della pandemia da Covid-19, con la diffusione dello smart-working, istituto che abbisogna senza indugio di immediati interventi regolativi sui profili della formazione, della sicurezza, della dotazione degli strumenti informatici, della privacy e della disconnessione.

E’ del tutto evidente, quindi, che c’è l’esigenza di promuovere e ampliare i diritti sociali in chiave evolutiva, in particolare per definire tutele ai nuovi e in gran parte fragili “lavoratori digitalizzati” e contrastare la svalorizzazione del lavoro prodotta anche da trenta anni di leggi sulla flessibilità.

Divisioni e limiti dell’azione sindacale delle tre centrali

Sono di tutta evidenza i limiti dell’azione del sindacalismo confederale nell’attuale vicenda sociale ed economica del nostro Paese.

A ben vedere essi sono quelli di una nuova divisione tra una visione antagonista ed una collaborazionista del sindacato, che sembrano fuoriuscite dalle viscere del Novecento, senza alcuna strategia riformista e partecipativa di ispirazione europea, in grado di costruire un vero dialogo sociale e a strumenti di democrazia industriale, per valorizzare il lavoro nelle strategie d’impresa.

 Il salario minimo legale

La divisione tra le tre confederazioni sindacali ha, sino ad ora, bloccata la definizione anche in Italia di una legge sul salario minimo legale.

Come è noto il salario minimo legale è un istituto che esiste in ventuno Paesi dell’Unione europea su ventisette, che hanno un sistema ex lege di fissazione dei minimi retributivi, sostenendo la contrattazione collettiva e migliorando l’accesso effettivo alla protezione sociale dei lavoratori.

L’esperienza comparata europea dunque, individua nel salario minimo per legge la soglia minima inderogabile delle retribuzioni, al di sotto della quale i contratti collettivi vengono disapplicati.

Appare, quindi, in contrasto con il modello europeo di salario minimo legale, l’ipotesi di parametrare il suo valore a quello delle retribuzioni dei contratti dei sindacati cosiddetti “comparativamente più rappresentativi”, poiché si avrebbe il paradosso di una contrattazione collettiva non ad efficacia generale e, quindi, di natura privatistica, che sostiene i minimi salariali per legge e non il contrario.

Dunque, niente autorizza a sostenere che l’intervento legislativo debba operare solo in via sussidiaria alla contrattazione, secondo la configurazione tradizionale della normativa sui minimi, cioè limitatamente alle categorie dove i salari siano eccezionalmente bassi per l’assenza o per la particolare debolezza della contrattazione e che, comunque, se la grande parte del lavoro subordinato è formalmente coperta dall’autonomia collettiva, un’area significativa ne è esclusa proprio per la pratica del dumping sociale, specie nel Mezzogiorno e a danno delle donne e degli immigrati.

L’ipotesi da perseguire, in linea con il modello comparato europeo, è quella di un livello salariale di base, calcolato al netto – in Germania dal primo ottobre sarà di 12 euro – quale soglia inderogabile per i contratti collettivi nazionali, tutti legittimi se rispettosi di tale vincolo.

L’efficacia erga omnes dei contratti collettivi

L’alternativa al salario minimo legale, come prospettato in coerenza con la previsione dell’art. 36 della Costituzione e il quadro comparato europeo, è il conferimento dell’efficacia erga omnes ai contratti collettivi.

Anche su questo tema è necessario, però, evitare strade surrettizie, di aggiramento della previsione dell’art. 39 Cost., che può anche suscitare eccezioni, ma esiste e deve essere rispettato, come testimonia la storica sentenza n. 104 del 1962 della Corte costituzionale nei confronti della reiterazione della “legge-Vigorelli” del 1959, in guisa l’eventuale tentativo legislativo di aggirare surrettiziamente quanto indicato dalla nostra Carta fondamentale in materia di efficacia generale dei CCNL, si scontrerebbe con una pronunzia di incostituzionalità.

Non è possibile infatti, il richiamo ad ordinamenti intersindacali che in realtà sottintende la difesa di vecchi monopoli rappresentativi, attraverso la nozione del “sindacato comparativamente rappresentativo”, non rispondenti al diffuso pluralismo sindacale e dell’associazionismo datoriale.

Nell’ipotesi del perseguimento della strada dell’efficacia generale dei contratti collettivi nazionali, serve una legge di attuazione dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 39 della nostra Carta fondamentale, ovviamente attraverso il diritto vivente e, cioè, le sentenze della Consulta e della Corte di Cassazione.

La legge sulle rappresentanze sindacali in azienda

L’ipotesi di una legge sulla rappresentanza non può certamente limitarsi a riconoscere e a dare efficacia generale agli accordi interconfederali e, quindi, al reciproco riconoscimento contrattuale tra associazioni datoriali e organizzazioni dei lavoratori in una logica esclusiva, che lede i principi di libertà sindacale e di diffuso pluralismo, garantiti e tutelati dal comma 1, dell’art. 39 Cost.

La proposta di modifica dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori

E’ necessaria una novella dell’art. 19 della legge n. 300/1970, come proposto di recente dalla Confial, per sostituire alle rappresentanze sindacali aziendali derivanti dal meccanismo di nomina attribuito solo ad alcuni sindacati.

E’ opportuno ricordare che il testo originario dell’art. 19 della legge 300/70 prevedeva:

Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito:

  1. delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale;
  2. b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva”.

L’originaria formulazione ha subito una modifica per effetto del referendum abrogativo dell’11 giugno 1995, con la soppressione della lettera b).

E ancora. La Corte Costituzionale, con sentenza 3 – 23 luglio 2013, n. 231, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano propri associati nell’unità produttiva e/o abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda“.

L’attuale formulazione dell’art. 19 della legge n. 300/1970, allo stato quindi, consente che possono essere nominate solo dai sindacati che partecipino alle trattative contrattuali e la cui ammissione ai tavoli è decisa dalle controparti datoriali, con i vecchi paletti di un ordinamento intersindacale che impedisce a chi ne è fuori – pur essendo rappresentativo o comunque presente in un’azienda con propri associati – di esercitare legittimamente diritti sindacali e funzioni di contrattazione collettiva, previsti dall’art. 39 della Cost. .

La proposta è la novella dell’art. 19 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, con la modifica delle rappresentanze sindacali aziendali in rappresentanze sindacali unitarie (RSU anche nel settore privato), a cui, come nel pubblico impiego, tutti i sindacati possano liberamente partecipare sulla base di liste, contendendosi sulla base di programmi il consenso dei lavoratori e garantendo così il diritto di voto, per consentire ai lavoratori di votare e scegliere i propri rappresentanti attraverso liste di tutte le organizzazioni sindacali, che intendono contendersi liberamente e senza limitazioni il consenso del mondo del lavoro, nel rispetto dei principi di pluralismo e libertà sindacali, sanciti dall’art. 39 della nostra Costituzione, dalle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dai Trattati europei.

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