Reddito di Cittadinanza tra Aporie e Prospettive. A cura del Prof. Maurizio Ballistreri.

REDDITO DI CITTADINANZA TRA APORIE E PROSPETTIVE

di Maurizio Ballistreri, Presidente I.S.L. – Confial – Istituto Studi sul Lavoro 

 La povertà è un problema importante nel mondo occidentale, dove forse il peso dell’indigenza è percepito, dalla minoranza che lo subisce, in maniera ancora più cruda per il quotidiano confronto con l’agiatezza ed il lusso della maggioranza. Tanto basta per opporsi con forza a chi propugna il tramonto del “Welfare State”. Lo Stato sociale è una conquista della modernità cui non si può abdicare se vogliamo vivere in una società il più possibile equa e giusta. Di questo ne abbiamo parlato il primo maggio a Matera nell’importante confronto voluto proprio con i protagonisti della politica e delle istituzioni dal Segretario Nazionale Benedetto Di Iacovo. Certo, abbiamo tutti convenuto che i meccanismi della redistribuzione non sempre funzionano in maniera corretta. Le garanzie sociali, sorte per proteggere gli individui dagli eventi che incidono negativamente sulla capacità di reddito – la disoccupazione, la malattia, l’infortunio, l’invalidità, la vecchiaia, la morte di un familiare – spesso sono degenerate nell’assistenzialismo, estremamente costoso per la finanza pubblica e con effetti distorsivi sulle dinamiche economiche, laddove l’aiuto statale si è sganciato da un’ottica oculata di sostegno all’effettivo bisogno perseguendo logiche demagogiche e clientelari. Ma, nonostante i vincoli di bilancio e gli esiti abnormi dello Stato assistenziale, è davvero difficile pensare che Le politiche economiche e sociali possano prescindere dall’azione redistributiva. Sarebbe, inoltre, ancor più sbagliato cedere alle sirene del liberismo imperante, agli imperativi della filosofia neoconservatrice, secondo cui l’aiuto ai più deboli, disincentivando l’iniziativa individuale, è addirittura immorale. E’ analisi condivisa che sia entrato ormai in crisi il modello che, mutatis mutandis, in campo economico si definisce “Keynes-Beveridge”, basato sull’intervento pubblico a fini redistributivi attraverso la leva fiscale, con avanzati sistemi di welfare state, adottato nell’ultimo dopoguerra dai laburisti in Inghilterra e dalle socialdemocrazie in Germania, Austria e nei paesi scandinavi nei “Trenta gloriosi”, integrato, negli anni Settanta e Ottanta del ‘900 dal modello neo-corporativo, per un’intermediazione degli interessi collettivi, fondata sullo “scambio politico” tra moderazione salariale e concessioni sociali: il compromesso dinamico tra Stato e mercato. Modelli avanzati di Stato sociale, che per oltre trent’anni si sono sviluppati praticamente senza soste, nel quadro di processi di sviluppo economico in Europa altrettanto tumultuosi, sia secondo il modello interpretativo di T.H. Marshall, per il quale dai diritti politici si muove con gradualismo verso quelli “più sostantivi, di tipo economico e sociale”, per estendere i diritti di cittadinanza, e secondo quello di Polany, concepito come “moto di autodifesa” da parte del movimento operaio riformista. Il welfare state come strumento di stabilizzazione del ciclo economico interno, funzionale ad una positiva correlazione tra produzione e domanda di massa. In questo scenario, l’introduzione di un reddito di cittadinanza in Italia ha come ambizione principale quella di riformare il quadro generale dello Stato sociale, le forme di protezione e sostegno al reddito e al consumo che sono in questo momento in vigore. Tale meccanismo si propone di completare le garanzie legate al welfare, quale strumento di based income per il nostro Paese.

E’ opportuno evidenziare però, che dietro la denominazione, l’istituto non é davvero uno strumento a carattere universalistico di sostegno al reddito. In realtà, per “reddito di cittadinanza” si intende a livello teorico un trasferimento universale, rivolto a tutti i cittadini senza alcuna distinzione e senza alcuna contropartita. Non solo chi è sprovvisto di reddito, dunque, ma anche i più agiati. Il suo importo dovrebbe essere sufficiente a condurre una vita dignitosa anche senza l’integrazione, in linea di principio, di altri redditi da lavoro o da trasferimento. In realtà il reddito di cittadinanza introdotto nell’ordinamento welfaristico italiano è un “reddito minimo garantito e, cioè, un sussidio non categoriale, non contributivo, selettivo e condizionato, che spetta solo a coloro che sono sprovvisti di mezzi a prescindere da altri criteri come l’età, l’eventuale inabilità o lo stato di disoccupazione, ed è legato a percorsi di accesso nel mondo del lavoro, che sconta notevoli deficit sotto il profilo della tecnica legislativa, incoerenze funzionali nonché vere e proprie aporie. E’ stato osservato che il reddito di cittadinanza da solo non può bastare a garantire a tutti i cittadini “un’esistenza libera e dignitosa” come previsto dall’art. 36 della Costituzione, prescindendo dalla stessa attività di lavoro, poiché una risposta pubblica alle vecchie e nuove domande sociali dovrà relazionarsi anche (e soprattutto) con le grandi questioni di scenario come la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia, l’introduzione della robotica, il contrasto al dumping sociale su scala planetaria, un diverso assetto del mercato capitalistico mondiale.Ma non si tratta solamente dell’imprescindibile contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, ma di un vero e proprio investimento pubblico per valorizzare gli spazi di libertà della persona, permettere di rifiutare i ricatti politici e lo sfruttamento sociale, la dipendenza familiare, patriarcale o caritatevole, promuovendo quindi una maggiore autodeterminazione delle proprie scelte di vita e lavoro, in un quadro di solidarietà sociale che restituisca fiducia al rapporto tra individuo, società ed istituzioni e che sviluppi la democrazia e la partecipazione.

 

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