L’INFELICITA’ IN ITALIA, TRA LAVORO POVERO E LAVORO RIFIUTATO Benedetto Di Iacovo, Segretario generale Confial

Se si osservano i dati sull’occupazione post pandemia, si vede la prevalenza dei rapporti di lavoro flessibili, part-time, involontari e altri rapporti discontinui sovente non formalmente subordinati con finalità fraudolenta, di cuil’80% a termine, in qualifiche a scarso contenuto professionale e a bassi salari con una media retributiva annua inferiore a 10.000 euro.

Si tratta di una condizione che han rafforzato la tendenza all’impoverimento del lavoro, a cui concorrono diverse concause legate alla condizione sociale dei nuclei familiari, tra cui la presenza di figli minori, la scarsa formazione professionale, la residenza in aree economicamente poco sviluppate – in particolare del Sud – e altri fattori discriminanti.

E questi lavori, in larga parte in condizione di sfruttamento, sottosalario, senza misure di sicurezza, costituiscono la base di quel fenomeno chiamato del “lavoro rifiutato”, soprattutto da parte dei giovani scolarizzati e laureati.

A questa condizione, a parte le specificità della struttura economica e sociale del nostro Paese, ha concorso in forma basica il processo di trasformazione delle condizioni dell’esistenza e dell’organizzazione dei lavoratori, conseguente alla pervicace capacità del capitale globale di trasformare materialmente e manipolare interiormente il lavoro e i lavoratori.

Si è trattato di un vero e proprio tsunami che ha colpito il lavoro dalla fine dei “Trenta Gloriosi” ad oggi (1945-1975, crescita economica nel mondo occidentale),con una sua nuova morfologia e una ancora maggiore interconnessione delle sue componenti sulla scala mondiale, ma non una sua scomparsa, che, al contrario, rimane centrale nella vita e nella riproduzione delle società e degli individui.

Infatti, se per effetto della decentralizzazione dei processi produttivi, con il loro spostamento dalla fabbrica, la creazione di imprese sempre più piccole e più interconnesse nelle loro filiere, i processi di delocalizzazione, lo sviluppo delle attività produttive immateriali, le trasformazioni tecnologiche conseguenti alla digitalizzazione e, presto, alla intelligenza artificiale, l’“uberizzazione” del lavoro – la ristrutturazione del sistema capitalistico di produzione ha determinato una cesura con la figura dell’operaio-massa di fordista memoria, con un drammatico abbassamento delle tutele e dei diritti sociali in tutta l’area OCSE, ciò non significa che il lavoro e la sua classe siano scomparsi.

E allora, per quanto attiene il nostro Paese, al lavoro è necessario che le istituzioni pubbliche, le parti sociali, gli studiosi dedichino una nuova e diversa attenzione, attuando misure concrete.

Occorre prevedere interventi per aumentare le retribuzioni nette – anche per fronteggiare l’impennata inflazionistica – e diminuire il costo del lavoro, intervenendo sul cuneo fiscale senza dimenticare i pensionati, consentendo così un aumento dei consumi e incrementando produzione e occupazione legale; affrontare serenamente e senza guerre di religione i temi del salario minimo legale e dell’efficacia generale dei contratti collettivi, promuovendo misure per favorire la formazione professionale, la flessibilità e la riduzione degli orari di lavoro, il rilancio del welfare state.

Ed è tempo anche di una nuova stagione dei diritti del lavoro, oltre il perimetro della subordinazione per tutele che riguardino tutto il lavoro economicamente dipendente anche se inquadrato come autonomo – si pensi ai rider – varando un codice del lavoro in grado di riassettare e adeguare il nostro ordinamento su tale cruciale materia, dando risposte alle giuste domande sociali, individuali e collettive, delle lavoratrici e dei lavoratori, ricordando le parole di Sandro Pertini, nel messaggio di fine anno del presidente della Repubblica, a proposito degli italiani e della loro dignità: “È un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso in terra. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo”.

Un monito per restituire un po’ di felicità al lavoro nel nostro Paese.

A proposito di ciò. Alcune ricerche dimostrano, che dopo la pandemia è cambiato anche l’approccio al lavoro. Ciò ha fatto sì che nella ricerca del lavoro, le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori vanno verso “l’azienda ideale”, quella che appunto possa garantire “lo stare bene” sia nell’ambiente lavorativo che nella vita privata. A questo tipo di azienda, si legge ad esempio nello studio realizzato da Astra Ricerche si chiedono condizioni economiche eque, certo, ma insieme a un ambiente di lavoro positivo, un buon work-Life balance, oltre alla stabilità contrattuale  e alla buona reputazione dell’azienda data principalmente dall’impegno nella sostenibilità.

Il welfare, infine, diventa la cosa principale e più importante per i lavoratori al punto che alcuni sarebbero disponibili a rinunciare ad una parte di stipendio (aumenti tassati) per ottenere maggiori vantaggi nella sfera personale e famigliare.

È in questa ottica che bisognerà affrontare le contraddizioni tra lavoro povero, lavoro rifiutato e infelicità del lavoro.

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