Quarantasei anni fa lo Statuto dei Lavoratori

46 anni fa, il 20 maggio 1970, lo Statuto dei Lavoratori. Un grandissimo risultato a favore dei lavoratori dipendenti, ad opera del Ministro del lavoro del tempo, Giacomo Brodolini, che diede una svolta alla sfera delle tutele ed al riconoscimento dei diritti dei lavoratori e all’esercizio delle libertà sindacali. L’idea di introdurre nell’ordinamento uno Statuto dei diritti dei lavoratori risale, però, ai primi anni ’50, quando, nel contesto sociale e politico scaturito dal dopoguerra, fu avanzata per la prima volta questa proposta in parlamento. L’esigenza nasceva da evidenti condizioni di sfruttamento nei luoghi di lavoro e dal clima di intimidazione, se non di repressione, che si respirava negli stessi, soprattutto nelle fabbriche e nelle aziende agrarie di natura latifondista; tanto più nei confronti dei lavoratori in lotta, maggiormente impegnati sul fronte sindacale. Agli inizi degli anni ’60, con l’avvento dei governi di centro-sinistra ed una serie di iniziative di lotta che coinvolsero anche il mondo studentesco (il cosiddetto movimento operaio e studentesco del ’68), cominciarono a farsi strada diritti e garanzie per i lavoratori, attraverso una serie di significativi interventi legislativi, fino alla introduzione nell’ordinamento della prima, seppur limitata, disciplina in materia di licenziamenti, con la legge 15 luglio 1966 n 604. Con il movimento del ’68 e con la più intensa stagione delle lotte operaie tornò di attualità l’idea dello Statuto, come strumento legislativo volto a garantire e rafforzare i diritti dei lavoratori e ad assicurare la presenza del sindacato nei luoghi di lavoro, come peraltro era, almeno in parte, avvenuto per via contrattuale con l’accordo del settore metalmeccanico del gennaio 1970. Lo Statuto dei lavoratori è riuscito a garantire per almeno tre decenni i diritti e le tutele a favore dei lavoratori, anche se non sono mancati, nel tempo correttivi in pejus. Sicuramente, per come era solito affermare Marco Biagi, la legislazione sul lavoro è ormai stratificata, non esiste un testo unico e si è, ormai, resa quasi incomprensibile. A volte è risultata anche fonte di abusi; si è, pertanto, ritenuto opportuno pensare ad una riforma della materia in modo che si tenesse conto di alcuni importanti cambiamenti avvenuti, nel tempo, nella società e nel mondo del lavoro, per effetto dell’introduzione dei processi di innovazione tecnologica ed anche, per come dimostrato da  studi fatti in sede comunitaria; diventava oramai ineludibile  consegnare ad imprese, lavoratori e loro rappresentanti una nuova visione del lavoro, volgendo lo sguardo verso “i Lavori” e quindi verso uno “Statuto dei lavori”, uno o più testi unici a vantaggio di una gestione moderna delle risorse umane”. L’uomo, il lavoratore, la risorsa umana, quindi, al centro del lavoro e dei lavori. Uno Statuto capace di bandire, sì, il linguaggio burocratico, ma altrettanto capace di evitare il rischio di un linguaggio da trapezista, che lascia aperta la bagarre sui contenuti e, soprattutto, sull’abbassamento delle condizioni di tutela e salvaguardia dei diritti acquisiti dai lavoratori e dalle lavoratrici nei luoghi di lavoro, pubblici e privati. In una parola, la società ed il mondo del lavoro sono cambiati ma, lo Statuto di tutti i lavoratori deve diventare il perno della nostra azione sindacale. In molte esperienze di sindacalisti, come me, c’è anche in anni andati quello di contribuire a costruire non solo piattaforme, ma addirittura articolati di legge sulle materie interessate, come ad esempio negli anni settanta le riforme delle aziende pubbliche. La base di partenza è ovviamente la rivendicazione della tutela forte del lavoratore come la parte debole nel rapporto di lavoro, l’estensione dello Statuto a tutti i lavoratori, la pericolosità del contratto individuale (oggi reso ancora più pericoloso con l’entrata in vigore del Jobs-Act), l’identificazione del “lavoratore” soggetto di diritto. E’ auspicabile il ritorno al primato dei diritti, magari, dandoci anche l’obiettivo di uno “Statuto europeo di tutti i lavoratori” e dove anche il capitolo “doveri” sia chiaro a tutti e a tutte. Superare, ad esempio, la contrapposizione tra lavoro dipendente e autonomo, nelle piccole imprese, tutelato e non tutelato per interessarsi a tutte le forme di lavoro rese a favore di terzi, non significa paragonare il piccolo imprenditore o quello con partita iva al lavoratore o all’imprenditore di livello industriale. Significa, al contrario, graduare e diversificare le tutele in ragione delle materie di volta in volta considerate e non come è ora a seconda delle tipologie contrattuali. In tutto questo si incunea una delle peggiori riforme, a nostro parere, qual è quella denominata “Jobs-Act”. Il Jobs Act è come a una rivoluzionaria medicina: inutile quando una persona è in salute, provvidenziale quando invece questa viene meno. Allo stesso modo, la riforma non avrà realisticamente un impatto significativo nella gestione ordinaria dei rapporti di lavoro, quanto piuttosto nella loro fase patologica, atteso che il datore di lavoro potrà finalmente, non ‘licenziare chi vuole’, come talvolta si legge, bensì, sapere con certezza a quali rischi va incontro. Una delle finalità più importanti del pacchetto legislativo denominato Jobs Act -almeno nelle intenzioni del legislatore- è quello di aumentare il numero dei posti di lavoro (i dati INPS dimostrano il contrario) mediante una promozione, anche attraverso importanti sgravi contributivi, del contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma comune del contratto di lavoro, in modo da renderlo più conveniente per le aziende e preferibile ad altre forme di lavoro flessibile. A tal fine, il legislatore ha introdotto nell’ordinamento un contrattoa tutele crescenti’ (ma sarebbe più opportuno parlare di ‘indennizzi crescenti’) che, in caso di licenziamento illegittimo, aumenteranno in relazione all’anzianità di servizio. In una parola si “scambiano” tutele certe in ragione di indennizzi monetari. Il Jobs Act può essere quindi considerato, a seconda della visuale (Sindacato o Impresa) un passo indietro nella direzione dei diritti acquisiti o un’opportunità per innescare progressivamente un circuito virtuoso dei cosiddetti Paesi ‘appealing’, cioè per gli investitori stranieri e per gli investimenti italiani in nuove imprese.  Se è vero che non sta al mondo Sindacale, o solo a questo (in altre epoche ciò non lo si sarebbe affermato), dire cosa ci deve essere nello Statuto dei Lavori, abbiamo il diritto di rivendicare le materie di cui ha bisogno il nuovo mercato del lavoro, quale base e fonte per orientarsi, lavorare e scegliere. Ciò che serve, in questa epoca, infatti, è la capacità di leggere il sistema economico/sociale/produttivo/occupazionale del Paese come un sistema integrato, con le sue specializzazioni, le sue potenzialità, le diverse e nuove identità lavorative e le sue nuove forme di rappresentanza, quindi, i suoi fabbisogni infrastrutturali materiali ed immateriali ed i conseguenti servizi al lavoro che bisogna offrire. Tutto questo lo si può fare solo con un reale coinvolgimento partenariale a livello nazionale e soprattutto regionale e locale. Ciò appare concretamente possibile, ove solo lo si voglia.

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